Costanzo Preve

Marx inattuale

Bollati Boringhieri, Torino 2004

1.

Per quanto ricco, articolato e meditato, il saggio di Costanzo Preve è sostanzialmente una rivendicazione del primato della filosofia rispetto alle scienze. Riferita a Marx, tale rivendicazione ripropone un topos classico della letteratura marxista, che oggi ritorna prepotentemente sulla base del fallimento del socialismo reale, ma lo ripropone in termini originali, riconoscendo la grandezza di Marx e, al tempo stesso, imputandogli la responsabilità primaria di una scelta - scienza vs filosofia - che l’autore ritiene esiziale.

Il capitolo primo introduce i termini della questione in maniera esemplare:

«Se ci si accosta con onestà intellettuale al pensiero di Marx (da tenere ben distinto da ogni dottrina marxista dogmatizzata successiva) ci si accorge con una certa inquietudine che esso è per ora insuperabile, e in ogni caso per il momento non superato. Si possono fare molti esami comparativi, da Weber a Durkheim, da Keynes a Habermas ecc., ma se li si fanno ci si accorge in fretta che in Marx c'è una sorta di «eccedenza», di qualcosa di inesauribile e comunque non ancora esaurito che porta inevitabilmente a doverne ammettere una sorta di superiorità. Non si tratta certo di stilare inutili e grottesche classifiche di records nelle scienze sociali. Vorrei addirittura tenermi lontano da formulazioni enfatiche come quella di Sartre, che parlò del marxismo come di un «orizzonte insuperabile» (horizon insurmontable) del nostro tempo. Si tratta di qualcosa di molto più pacato e razionale. In breve, mentre dopo Newton è venuto uno Einstein, dopo Marx non è venuto l'equivalente di Einstein, anche se molti hanno proclamato di esserlo. Questo è il punto.

Le stesse critiche radicali a Marx, come vedremo meglio più avanti, possono essere utilmente raggruppate in tre grandi classi: critiche di storicismo, critiche di economicismo e critiche di utopismo. Ebbene, queste tre grandi classi di critiche di storicismo, economicismo e utopismo, teoricamente alla portata di qualunque maestro di scuola e di qualunque liceale intelligente, derivano tutte e tre dal «lato positivo» del pensiero di Marx, e cioè dai tre elementi costitutivi del suo pensiero, che ora riassumerò
brevemente per chiarezza espositiva.

Il primo elemento del pensiero di Marx è la sua interpretazione della storia universale, interpretazione già maturata prima del 1848 e prima della successiva elaborazione della teoria del plusvalore. Si tratta della teoria dei modi di produzione sociali, in cui la storia è interpretata come una sequenza temporale di progressione dei modi di produzione. Gli studiosi di marxologia generalmente concordano sul fatto che questa concezione, poi definita «materialismo storico», è già fondamentalmente presente nella sua interezza nella Ideologia tedesca scritta fra il 1845 e il 1846. A soli ventotto anni di età, dunque, Marx era già in possesso dell'ipotesi scientifica fondamentale che sorreggerà dopo tutti i suoi studi.

Il termine «materialismo storico» si compone di due parole combinate insieme, la Materia e la Storia. Più avanti, in sede di analisi filosofica, farò notare che queste due astrazioni teoriche (la materia e la storia, appunto), spesso ingenuamente considerate «proletarie» e non «borghesi», anzi antiborghesi (la borghesia sarebbe invece spiritualistica, conservatrice e dunque nemica sia della Materia sia della Storia), sono invece il prodotto di una generalizzazione settecentesca del pensiero borghese più puro. In ogni caso, è bene notare che la stessa prima scoperta di Marx (l'interpretazione della storia universale come sequenza temporale di progressione dei modi di produzione) dà luogo dialetticamente alla prima serie di critiche, quella cioè che ho definito critiche di storicismo.

Qui il termine storicismo non significa separazione metodologica fra scienze della natura e scienze sociali, e neppure pretesa di previsione prescrittiva maniacale del futuro, ma significa appunto riduzione integrale della realtà a storia, eliminazione di fatto di ogni filosofia che non sia solo epistemologia, storiografia e ideologia, e di conseguenza attribuzione alla storia di un doppio movimento a un tempo meccanicistico e teleologico.

Il secondo elemento del pensiero di Marx è la sua teoria della genesi e dello sviluppo del modo di produzione capitalistico, una teoria che trova il suo centro e il suo fondamento nella produzione e nella realizzazione del plusvalore, ed è quindi anche una teoria delle crisi economiche specifiche del capitalismo. Marx ci lavorò per tutta la vita, anche se a partire dagli anni cinquanta andò sviluppando sempre più un interesse specifico per le formazioni sociali precapitalistiche, da quelle dette allora «primitive» a quelle di tipo in qualche modo misto, asiatico ecc. (la Russia, ma anche l'India e la Cina).

Questo secondo e decisivo elemento del pensiero di Marx deriva ovviamente da una scelta che lui fece precocemente (come documenta molto bene Ernest Mandel), una scelta che invece non fecero il grande idealista Hegel e il grande positivista Comte, e cioè l'individuazione nell'economia politica classica del grande oggetto da criticare e da rovesciare, ma anche da privilegiare.

Questa seconda scoperta di Marx dà quindi luogo alla seconda possibile serie di critiche, che ho definito critiche di economicismo: dove il termine economicismo non significa assolutamente che Marx debba essere inserito nella serie omogenea dei cosiddetti «grandi economisti classici» (qui sono invece d'accordo con Claudio Napoleoni, che a suo tempo distinse con insuperabile acutezza fra critica dell'economia politica ed economia politica critica, dai socialisti ricardiani a Keynes). Chi lo fa, e molti lo fanno, continuano a farlo e lo faranno in futuro, viola la lettera e lo spirito del pensiero di Marx, e quanto dico è filologicamente documentabile.

Il termine economicismo significa soltanto che anche nel caso in cui si privilegi la critica dell'economia politica sull'economia politica critica «di sinistra» si ha pur sempre un rovesciamento dialettico dello stesso oggetto preventivamente privilegiato. E allora, così come l'ateismo rovescia e nega il monoteismo, ma resta prigioniero del suo stesso avversario che nega ma che gli detta inevitabilmente le regole rovesciate della sua negazione (prove dell'inesistenza contro prove dell'esistenza, morale autonoma contro morale eteronoma rivelata ecc.), nello stesso modo l'economia politica criticata e negata continua a dettare implacabilmente le regole in cui si incanala il pensiero critico.

Qui la filosofia, già negata dallo storicismo che le sostituisce la mescolanza non filosofica di Materia e di Storia, è negata due volte, perché l'economicismo la riduce implacabilmente a ideologia, e cioè a puro spazio ideologico.

Il terzo e ultimo elemento del pensiero di Marx è la sua teoria del comunismo come prodotto materiale della dinamica sociale immanente del capitalismo e non più come progetto politico di tipo moralistico‑utopico. Occorre insistere sul fatto che Marx era «comunista», anche se questo può sembrare un po' ridicolo per la sua ovvietà. Eppure occorre farlo, perché vi sono stati storicamente due tipi di «marxismo»: quello opportunistico dei ceti politici professionali e quello universitario degli specialisti disciplinari (storici, sociologi, economisti, filosofi, politologi ecc.) che non potevano di fatto sopportare il carattere «comunista» del pensiero di Marx, e dovevano attivare sapienti strategie di rimozione e occultamento. Il marxismo opportunistico dei ceti politici professionali, in genere alleati con le fameliche borghesie di Stato dei rispettivi paesi, dovevano in qualche modo coniugare Marx con Keynes ed erano così attirati gravitazionalmente da una interpretazione semplicemente neoricardiana di Marx (di qui il successo di Sraffa).

Il marxismo universitario degli specialisti disciplinari doveva invece «squartare» Marx nelle varie discipline accademicamente riconosciute, e doveva quindi praticare gli infiniti trapianti e gli infiniti «ibridi» necessari (Marx‑Braudel, Marx‑Heidegger, Marx‑Weber, MarxSmith ecc.).

Comunque, Marx era «comunista». Erede della tradizione filosofica tedesca (ed ebraica) della teologia negativa, egli si rifiuta di scrivere ricette (comtiane?) per le osterie del futuro, ma questo non risolve il suo problema. Egli si rifiutava infatti di descrivere nei dettagli il proprio comunismo, perché capiva bene che questa era stata la via bloccata della tradizione utopistica, da Moro a Fourier passando per Campanella e Morelly. Ma teneva fermo nell'affermare il comunismo, sia pure nella vaga formulazione dell'esaudimento dei bisogni in assenza di Stato politico e di mercato economico. Questo dà inevitabilmente luogo alla terza serie di critiche, che ho definito critiche di utopismo.

L'utopismo non consiste in questo caso, come ho già detto, nella pretesa descrittiva dei dettagli della società alternativa, ma nella semplice postulazione, ritenuta « scientifica » (e in realtà a mio avviso religiosa, come chiarirò nel secondo capitolo di questo libro), che l'automovimento dialettico della produzione capitalistica porterà, in modo a un tempo deterministica e teleologico, a un soddisfacimento comunista dei bisogni in assenza di Stato politico e di mercato economico. Ogni «dimostrazione» di questo tipo non poteva che fallire, e infatti è sempre fallita.

Ribadiamo allora per l'ultima volta un punto metodologico fondamentale, e cioè che le tre serie principali di critiche possibili a Marx (lo storicismo, l'economicismo e l'utopismo) sono solo la ricaduta fisiologica, e non patologica, delle stesse tre scoperte fondamentali di Marx. Io ho insegnato per trentacinque anni nei licei italiani, e sono un grande estimatore dei liceali intelligenti. Dicendo però che queste tre serie di critiche sono alla portata di qualunque liceale intelligente, intendo segnalare che la semplice ripetizione dei tre ordini di critica non cambia niente, lascia le cose al punto di prima, e dà anzi l'errata impressione di stare «superando» Marx con il semplice rilevamento del fallout, e cioè della ricaduta storicistica, econoinicistica e utopistica delle sue teorie...

Bisogna dunque cambiare radicalmente impostazione. Mettiamo provvisoriamente fra parentesi le tre serie di critiche a Marx. Concentriamoci invece sulle due conseguenze delle scelte che Marx ha fatto, e che soprattutto ha trasmesso, con la tarda mediazione di Engels e di Kautsky, ai suoi posteriori seguaci. In questo primo capitolo mi concentrerò su due di queste conseguenze: la rinuncia a fondare filosoficamente il suo discorso, e ad ammettere una sfera della conoscenza filosofica distinta e non riducibile a quelle scientifica e artistica, e l'individuazione dell'oggetto teorico privilegiato da criticare nell'economia politica classica.

Cominciamo dal primo aspetta essenziale, la rinuncia di Marx a dare una fondazione filosofica al suo discorso storico‑economico, cui si lega ovviamente il rifiuta di riconoscere l'esistenza di una forma di conoscenza specificatamente filosofica. Questa rinuncia era perfettamente chiara a Engels quando scrisse l'Antiduhring prima del 1878, quando Marx era ancora vivo e avrebbe potuto tranquillamente smentirlo. Engels scrive che la loro dottrina «non ha più bisogno di nessuna filosofia che stia al di sopra delle altre scienze».

In un secondo momento ‑ e questo è ben noto a tutti i filologi engelsiani ‑ Engels oscillò fra una concezione della filosofia come concezione scientifica globale del inondo e una concezione della filosofia come dottrina del pensiero e delle sue leggi, cioè logica formale e dialettica. Entrambe le varianti, a mio avviso, non costituiscono però una filosofia in senso proprio, e tendono irresistibilmente o verso una ideologia politica o verso una epistemologia, cioè verso un supporto gnoseologico alle scienze particolari, che ordinariamente non sanno però cosa farsene, e non lo nascondono neppure.

In circa un secolo, questo rifiuto della conoscenza filosofica non è mai cambiato. Friedrich Engels lo formalizzo negli anni settanta dell'Ottocento, Louis Althusser lo ribadì negli anni settanta del Novecento. La filosofia è sempre epistemologia e/o ideologia, ma filosofia non lo è mai. Vogliamo sostenere che Engels e Althusser hanno «tradito» Marx? Certamente no. Sarebbe improprio e scorretto. Engels e Althusser hanno a mio avviso interpretato correttamente Marx. Marx affermò di non essere «marxista» di fronte a stravolgimenti economicistici del suo pensiero... In ogni caso, ritengo che Marx a suo modo fosse ovviamente «marxista». E nel suo modo di esserlo, la conoscenza filosofica effettivamente non aveva spazio.

La rinuncia di Marx ad attribuire alla conoscenza filosofica uno spazio autonomo (che a mio avviso non è mai né «sopra» né «sotto» le scienze, come cercherò di chiarire più avanti) è per me una ovvietà filologica. Tuttavia, questo resta largamente incomprensibile se si leggono le numerose ricostruzioni dettagliate del cosiddetto «giovane Marx» dal 1839 al 1848, in cui sembra invece che Marx si stia aprendo una strada verso una sua filosofia, intessuta di materia e di storia, fondata su una sua peculiare concezione di alienazione e disalienazione come raddrizzamento di un mondo capovolto, e basata infine su una doppia intelligente critica rispettivamente di Hegel e di Feuerbach, e su un finale congedo dalle illusioni dei «giovani hegeliani» di sinistra di poter fare una rivoluzione puramente ideale senza supporti sociologici materiali rivoluzionari.

Ora, io non intendo affatto negare che quanto dicono nei più piccoli dettagli i libri sul giovane Marx sia vero. E vero, ma si tratta pur sempre della descrizione dettagliata di alberi che nascondono il fatto che esiste una foresta, e in questa foresta Marx aveva deciso di entrare. La foresta in cui Marx aveva deciso di entrare è la rinuncia a qualsiasi fondazione filosofica del suo discorso...

Il centro della questione sta in ciò, che la filosofia ha un suo spazio conoscitiva specifico, che non può essere ridotta a epistemologia di servizio e/o ideologia militante, e che chi riduce sociologicamente (anzi, pseudo‑sociologicamente) la filosofia a sopravvivenza premoderna e precapitalistica oppure a sofisticata secolarizzazione protoborghese della religione finisce con il negare alle sue stesse produzioni teoriche (ed è il caso a mio avviso di Marx e dei marxisti successivi) lo spazio critico di autoriflessione.» (pp. 23-31)

La conseguenza della rinuncia di Marx alla filosofia è la sua scelta strategica di individuare nell’economia politica il terreno privilegiato della critica:

«Scegliere l'economia politica, sia pure rovesciata, criticata, rivoluzionata ecc., significa pur sempre mettersi sul suo terreno. In un suo libro fondamentale Zygmunt Bauman ha chiarito che già a partire dagli anni venti dell'Ottocento in Inghilterra, e poi progressivamente in altri paesi, la classe operaia ha dovuto accettare il terreno obbligato della cosiddetta «economicizzazione del conflitto», in cui rinunciava a imporre il ritorno a forme produttive precedenti e/o alternative (manifattura, artigianato, coltivazioni e scambi collettivi ecc.), per inserirsi sul nuovo terreno della distribuzione maggiormente equa dei beni e dei servizi prodotti capitalisticamente. Bauman inserisce questa «economicizzazione del conflitto» in un contesto storico estremamente ampio e articolato, in cui essa appare una necessità cui era praticamente impossibile opporsi. Alla luce di questa notevole interpretazione di Bauman, che personalmente condivido, il cosiddetto «utopismo » ottocentesco non appare più come un residuo passatista arretrato, ma come l'ultimo tentativo di evitare l'economicizzazione del conflitto in favore invece di una concezione alternativa della produzione, della distribuzione e del consumo.

In ogni caso, questa economicizzazione del conflitto di classe, che porta con sé la subalternità culturale complessiva come sua conseguenza inevitabile, non poté essere evitata. Non fu certo colpa di Marx. Ma le sorti successive del marxismo e dei movimenti sociali di opposizione furono determinate in modo indelebile da questo avvenimento storico cruciale.

Pubblicando nel 1867 il primo libro del Capitale Karl Marx non intendeva certamente portare un «contributo» di sinistra all'economia politica (ciò era già stato fatto dai socialisti ricardiani in modo pressoché insuperabile), ma intendeva impostare una critica complessiva della società capitalistica, di cui l'economia politica era la nuova religione globale di legittimazione. Tuttavia, negli stessi anni si. stava sviluppando la sua critica politica a Bakunin e alle correnti anarchiche della Prima Internazionale, e nel contesto di tale critica Marx fu portato a sostenere sempre più la cosiddetta «capacità politica della classe operaia». Questa espressione poteva di fatto essere tradotta in un solo modo: la classe operaia non deve avere paura di fondare un partito politico indipendente, anzi deve perseguirne la costruzione, partecipare alle elezioni, avere una rappresentanza parlamentare, smettere di appoggiare i cosiddetti «liberali borghesi» ecc. Del resto, fu su queste premesse che venne fondata prima la socialdemocrazia tedesca unitaria nel 1875 e poi la Seconda Internazionale nel 1889.

Il massimo di radicalità teorica della proposta marxiana coincise dunque storicamente con la «realistica» proposta di fondazione di un partito politico di tipo socialdemocratico. Ma il programma economico di un partito politico socialdemocratico non può che basarsi su una schizofrenia. Da un lato, un programma massimo di superamento del capitalismo, che ha la critica marxiana dell'economia politica come sua bandiera e come sua bussola. Dall'altro, una inevitabile «economicizzazione del conflitto», che in Germania era comunque già stata anticipata dalle riforme sociali di Bismarck e in Inghilterra dallo sviluppo del sindacalismo tradeunionista...

Gran parte della storia del marxismo dopo il 1883 è una storia di economicizzazione del conflitto nei paesi rimasti «capitalistici», e di economicizzazione industrialistica nei paesi in cui si mise mano alla staliniana «costruzione del socialismo». Marx aveva pensato e concettualizzato il socialismo come rovesciamento dialettico del capitalismo stesso in comunismo (come ha recentemente dimostrato a mio avviso in modo impeccabile Bernard Chavance), e tutto il suo apparato concettuale diventava di fatto inservibile se dal rovesciamento dialettico (Grundrisse ecc.) si passava alla «costruzione» delle basi materiali del socialismo (piani quinquennali sovietici e cinesi ecc.). Il modo di produzione capitalistico fu così ridotto a «capitalismo», e il capitalismo ad anarchia del mercato e a proprietà privata trasmissibile per testamento dei mezzi di produzione. Da Paul Sweezy a Charles Betteiheim sono stati molti gli studiosi che nell'ultimo cinquantennio hanno ripetutamente chiarito che la semplice formula proprietà statale (e cooperativa) dei mezzi di produzione + pianificazione dell'economia non era sufficiente a innescare un processo di transizione intermodale dal modo di produzione capitalistico al comunismo. Fu tutto inutile, e con il senno di poi capiamo che non poteva che essere inutile. La «locomotiva» del socialismo si era incamminata su un binario morto, ed era solo questione di tempo perché si fermasse, i macchinisti scappassero in cerca di un nuovo ingaggio meglio pagato, e i passeggeri dei vagoni venissero abbandonati a vagare in mezzo alla steppa sperando di essere assunti come braccianti e prostitute dai nuovi barbari sopraggiungenti.» (pp. 58-60)

Sulla base di queste premesse, l’autore affronta, nei tre capitoli successivi a quello citato, tre tematiche che ritiene essenziali per procedere verso una ristrutturazione (o, nella sua terminologia, un riorientamento gestaltico). Tali tematiche concernono il nichilismo, l’universalismo e l’individualismo.

I complessi contenuti dei tre capitoli sono esposti in maniera chiara e sintetica nell’Introduzione nei seguenti termini:

«Il secondo capitolo è di tipo filosofico, ed è dedicato appunto alle conseguenze della scelta originaria di Marx, esplicitata e rafforzata (e dunque sostanzialmente rispettata e non tradita) da Engels, di non fondare filosoficamente, ma solo «scientificamente », il suo materialismo storica e la sua critica dell'economia politica. A mio avviso, invece, la filosofia è una forma di conoscenza autonoma, ed esiste dunque una forma specifica di conoscenza filosofica. Questa è a mio avviso l'eredità di tutto il pensiero degli antichi greci, e non solo di una corrente particolare fra le altre (platonica, aristotelica, epicurea, stoica ecc.). Dunque Atene, non Gerusalemme. Il rifiuto della filosofia in favore dell'esclusivismo della cosiddetta «scienza» è a mio avviso una mossa religiosa, che semplicemente sostituisce la religione can la scienza senza mai poterle indagare criticamente e dialogicamente entrambe.

Questo seconda capitolo sul nichilismo parlerà dunque prima della religione e poi della scienza, o meglio del rovesciamento nichilistico della prima nella seconda. E’ possibile definire brevemente questo rovesciamento della religione nella scienza in termini di ideologia. L'ideologia è dunque il terreno teorico in cui si costituisce una sintesi, necessariamente instabile e a obsolescenza relativamente veloce (nel caso del marxismo, poco più di un secolo), di quasi‑religione e di pseudo‑scienza. Il marxismo fondata su basi nichilistiche, e quindi filosoficamente non fondato, è stato grosso modo proprio questo. Chi dunque intende (e oggi si tratta della stragrande maggioranza degli autori politicamente corretti con accesso alla chiacchiera consentita sui media cartacei della cosiddetta Sinistra, compresa ovviamente l'Estrema Sinistra) rifondare il comunismo e ricostruire il marxismo senza porsi preventivamente il problema del nichilismo, e proponendone anzi il rafforzamento (e dovrò inevitabilmente fare qualche penoso esempio), non è solo un incrocio animale sterile destinato a non poter fecondare nessuno, ma è un ostacolo a qualunque ripresa di prospettiva. Se l'odierno pensiero detta di Sinistra fosse solo sterile, non sarebbe poi così grave, perché non potrebbe fare troppi danni. Ma esso è anche e soprattutto un ostacolo attivo, particolarmente arrogante e supponente. Qui sta il problema, per il momento insuperabile e per ora non in via di soluzione.

Il terzo capitolo è di tipo prevalentemente storico e sociologico, e la sua lettura è evidentemente facilitata dalla preventiva comprensione delle tesi su nichilismo, religione, scienza e ideologia sviluppate nel secondo. Queste tesi sono ormai presupposte, e vengano qua e là riprese con la premessa implicita che sono già conosciute. Il capitolo inizia rilevando come nell'eredità di Marx vi siano in potenza due approcci di fatto incompatibili alla storia universale: il primo di tipo unilineare (e cioè estrapolato dalla storia europea) e il secondo di tipo multilineare (e che cerca quindi un respiro comparativo di tipo mondiale). Questa è la ragione per cui il terzo capitolo si intitola Marx e l'universalismo. Ovviamente, la premessa è che un vero universalismo non può in realtà essere fondato su basi nichilistiche.

Da un punto di vista filologico, sono d'accordo con studiosi come Umberto Melotti (uno dei tanti ingiustamente dimenticati) sulla tesi per cui il pensiero autentico di Marx è fondamentalmente multilineare, o almeno legittimamente interpretabile in senso multilineare. Tuttavia, non può essere soltanto un caso, o frutto di ripetuti fraintendimenti, che la teoria di Marx sia stata sistematicamente interpretata in senso unilineare, di «estensione» cioè dell'unico modello di sviluppo europeo al mondo intero. Oggi coloro che sostengono che la globalizzazione, buona o cattiva che sia, è inevitabile come la «legge di gravità» (e questo è stato enunciato in termini pressoché identici da George Soros e da Fidel Castro), sono in realtà gli eredi contemporanei di questa concezione unilineare della storia mondiale.

A mio avviso, la forza di questa concezione unilineare della storia universale, e quindi di fatto della pretesa di universalismo del comunismo marxiano e marxista, non sta tanto nella cosiddetta teoria dei «cinque stadi» (e cioè comunismo primitivo, schiavismo, feudalesimo, capitalismo e comunismo). La teoria dei cinque stadi, colonna portante del marxismo scolastico nei sistemi ideologici del comunismo storico novecentesco (19 17‑91), e che tuttora permane con tetragona follia nei residui sistemi scolastici cubano, cinese, coreano ecc. (prova questa del fatto che la gente non dimentica mai nulla, e di conseguenza non impara mai nulla), è solo una formulazione del positivismo, la cui concezione del mondo era proprio quella dell'evoluzione stadiale, e quindi insieme deterministica e teleologica.

Questa concezione unilineare della storia universale è invece dovuta a mio avviso proprio alla centralità dell'economia politica inglese «occidentale» come oggetto critico privilegiato di Marx, e alla «economicizzazione del conflitto» che essa di fatto comporta. Il «rovesciamento» di questa concezione, che si basava sulla centralità della Borghesia come classe collettiva creativa e demiurgica, porta alla speculare (e altrettanto illusoria) centralità della Classe Operaia e Proletaria come classe universale. Ma essa a mio avviso è universale (e anche in questo caso non per Marx, in cui era universale solo il lavoratore collettivo cooperativo associato, dal direttore di fabbrica all'ultimo manovale) soltanto in uno schema unilineare eurocentrico della storia universale. In un approccio multilineare essa non lo è. Alla luce di questa consapevolezza, che a mio avviso tarda a emergere come dovrebbe, occorre evitare due vicoli ciechi su cui invece in generale si portano le concezioni di filosofia politica di parte marxista.

Il primo vicolo cieco, pienamente giustificabile (e da me pienamente giustificato) ai tempi di Lenin, ma assolutamente non più oggi, è quello della facile sostituzione della Classe con il Partito, e cioè di un aggregato sociale con una struttura politica centralizzata. Cercherò su questo di essere chiaro, facendo ovviamente esempi storici, perché so bene che qui la lingua batte dove il dente duole, e i nostalgici della funzione demiurgica del Partito abbondano tuttora, e niente può convincerli che si tratta di una illusione. Il secondo vicolo cieco, che ritengo ancora peggiore del primo, è quello del Soggetto Spontaneo ricavato sociologicamente, e che oggi ha preso il nome alla moda di Moltitudine. I seguaci del Partito e i seguaci della Moltitudine tengono oggi il campo, e hanno i loro tifosi con i loro striscioni. Chi scrive ha deciso da tempo di non andare alle loro mediocri e insulse partite.

Il quarto e ultimo capitolo tratta il rapporto fra l'eredità di Marx e l'individualismo, o più esattamente la natura dell'individuo fra comunità e società. Comunità e società che in greco si rendevano con un termine unico (koinonìa), che si sono poi spezzate e divaricate con il processo di individualizzazione atomistica costitutivo della modernità (che trova nella filosofia di Hobbes il suo primo manifesto teorico integrale), e che in qualche modo il comunismo di Marx vorrebbe ricomporre. Ma, appunto, ricomporre non può significare unificare a forza. Su questo punto cruciale l'avere idee chiare sui precedenti due temi del nichilismo e dell'universalismo diventa decisivo. Un nichilista non universalizzerà mai niente. A sua volta un universalismo fasullo non potrà mai dare luogo a una individualizzazione decente della personalità, ma solo a un «sosia socializzato», secondo l'insuperabile espressione usata a suo tempo da Ernst Fischer.

A Karl Marx era chiaro che la persona umana comprendeva contraddittoriamente una maschera economica (persona, pròsopon) e una identità dell'Io, e che in questa contraddizione dialettica si situava il problema della individualità moderna, astratta nella prima dimensione e concreta nella seconda. Questo fu capito molto bene da tutti coloro, come per esempio Norman Geras, i quali sostennero che un marxismo degno di questo nome non solo è compatibile con una teoria della natura umana, ma si fonda anzi su quest'ultima. Alla luce di questa comprensione, cade a mio avviso l'inesistente e per me fastidiosa questione se il marxismo sia un umanesimo o un antiumanesimo. La questione non è per me filosofica, ma solo ideologica, e cercherò di mostrare al lettore con l'esempio di Louis Althusser (un altro avrebbe potuto essere quello di Adam Schaff) che questa assurda questione può essere compresa solo a partire dalla congiuntura storica specifica degli anni sessanta in Europa, allora divisa fra Europa occidentale ed Europa orientale.

La tesi di fondo che sosterrò in questo quarto e ultimo capitolo è ispirata liberamente alla tesi di Louis Dumont, per cui il marxismo non soffre di eccessivo colletivismo, ma di eccessivo individualismo, nella misura in cui il collettivismo è solo l'esasperazione «organica» dell'individualismo. Si tratta di una tesi controcorrente, opposta a tutte le consuete dicotomie che vengono applicate di solito al marxismo. Nella mia prospettiva, ovviamente, che è diversa da quella di Dumont, questo strano «individualismo collettivistico» deriva proprio dai due contenziosi precedentemente irrisolti della mancata fondazione filosofica, e quindi del nichilismo, e della mancata fondazione storica e sociologica universalistica, e quindi dell'eurocentrismo unilineare di tipo storicistico ed economicistico.

Mi permetterò di svolgere in questo quarto e ultimo capitolo una breve riflessione sull'utopia e sul pensiero utopico per mostrare appunto come il pensiero utopico abbia posto correttamente il problema della comunità umana, ma non l'abbia posto in modo altrettanto soddisfacente per quanto riguarda l'individualità. La stessa economia politica, a mio avviso (e non solo a mio avviso) è una utopia integrale. Economia politica e comunismo collettivistico sono due facce della stessa utopia. Il problema è dunque quello di uscire da questa falsa dicotomia. Mettere a fuoco questo problema, e non risolverlo (perché onestamente dichiaro di non saperlo fare) è lo scopo finale di questo breve libro.» (pp. 10-15)

E’ evidente che le argomentazioni svolte nei primi capitoli tendono a porre le premesse per lo svolgimento dell’ultimo - dedicato a Marx e l’individualismo - che è il più importante. In questo, infatti, si chiarisce dove Preve va a parare. Occorre dunque citarlo ampiamente, tenendo conto della conclusione del terzo, che è la seguente:

«Il Genere Umano è la sola forza storica universalistica reale, anche se ovviamente oggi è diviso in classi antagonistiche, in cui la classe oppressa ha il pieno diritto storico-naturale di resistenza con ogni mezzo. Questo Genere Umano è però di per sé vuoto, se non si concretizza e si determina in individui, in persone, in soggetti, in «anime» concrete.» (p. 153)

Nel quarto capitolo, Preve scrive:

«Parlare di genere umano ha senso soltanto se riusciamo a costruire una antropologia filosofica convincente...

Ogni presupposto universalistico ci costringe dunque a verificare come questo presupposto si specifichi e si concretizzi nella concezione della singola individualità. Ora, di Marx si possono dire molte cose, ma non si può negare il fatto che la genesi storica del suo pensiero non è stata né cinese né indiana, ma è stata greco-ebraica o ebraico-greca, a seconda di dove dobbiamo mettere l'accento...

L'indiscutibile provenienza di Marx dalla tradizione greco-ebraica (formulazione che ritengo più corretta di quella tradizionalmente usata, e cioè «ebraico-cristiana») non significa ovviamente che questa tradizione debba essere concepita come la legittimazione della presunzione di superiorità eurocentrica, occidentalistica e unilineare. Tuttavia questa provenienza c'è, non può essere esorcizzata con fughe in avanti «mondialistiche», e allora è bene riflettere sui suoi caratteri specifici...

Il fatto che Marx provenisse da una tradizione (quella degli antichi greci, nostri venerati maestri) che metteva nella psiché il fondamento della verità permette di capire che in Marx c'è lo spazio per due teorie, una teoria della natura umana e una teoria dell'individualità umana.

La teoria della natura umana permette di capire che Marx è un teorico della costruzione potenzialmente infinita di modelli sociali, e non il macchinista di una locomotiva che si muove su un prefissato binario stadiale.

La teoria dell'individualità umana permette di capire che Marx è un teorico della libertà, e non del livellamento egualitario forzato, come molti pensano. Si tratta di due questioni di importanza veramente cruciale.

In pieno accordo con Norman Geras considero una «leggenda», e dunque una interpretazione completamente infondata, l'idea che Marx respingesse il concetto di natura umana. Personalmente, ritengo che senza un chiaro concetto di natura umana potremmo andare subito a casa, e rinunciare al faticoso lavoro di esame critico dell'eredità di Marx.

Tuttavia, occorre segnalare che coloro che negano la legittimità della nozione di natura umana in Marx fanno riferimento a un dato filologico innegabile, e cioè alla sesta delle note Tesi su Feuerbach del giovane Marx. In questa sesta tesi Marx sostiene che «l'essenza umana non è una astrazione inerente all'individuo singolare. Nella sua realtà effettiva, essa è l'insieme dei rapporti sociali». In altri termini, quella che viene chiamata essenza umana si riduce all'insieme dei rapporti sociali, e non ne rimane nulla al di fuori.

Alcuni pacati chiarimenti possono aiutare a impostare correttamente il problema.

In primo luogo, qui Marx non parla di natura umana, ma di essenza umana. Non è la stessa cosa. Marx osserva che «Feuerbach non entra nella critica di questa essenza reale effettiva, ed è allora obbligato: 1) a fare astrazione del corso della storia e a fissare il
sentimento religioso per sé, presupponendo un individuo umano astratto, isolato; 2) l'essenza può dunque essere colta soltanto come "genere", universalità interna, muta, che lega insieme i numerosi individui solo in modo naturale». Come si vede, Marx ritiene che l'essenza umana non possa e non debba essere colta astraendo dalla storia, e dunque costruendosi un individuo naturale inesistente. Si tratta dell'anticipazione della critica al robinsonismo... Ma il fatto che l'essenza umana sia storica e non naturale non significa che la natura umana non esista.

In secondo luogo, infatti, proprio partendo dal fatto che la cosiddetta «essenza umana» è storica e non naturale, la natura umana è vista come un Gattungswesen, cioè come caratteristica dell'uomo come ente naturale generico e non specifico, o più esattamente che si specifica storicamente solo sulla base di una genericità costitutiva precedente. In quanto ente naturale generico, l'uomo non è geneticamente prefissato a dar luogo a una e una sola forma di oggettivazione sociale...

L'ente naturale generico, cioè la Gattungswesen, che costituisce l'uomo come essere inscindibilmente naturale e sociale, permette all'uomo la storicità, che non è soltanto l'infinita produzione di configurazioni storiche e sociologiche diverse, ma è anche il luogo della perdita e del ritrovamento di se stesso, in caso contrario non si potrebbe neppure dire che il comunismo è meglio del capitalismo. I negatori (non solo ma soprattutto althusseriani) del concetto di natura umana non solo non sanno che cosa significa ente naturale generico (Gattungswesen), e quindi confondono il carattere storico dell'essenza umana con il carattere ontologico della natura umana, ma vorrebbero tener fermo il fatto che si può criticare il capitalismo e auspicare il comunismo come suo razionale superamento senza però esprimere alcun giudizio morale, limitandosi a sorrisini di scherno e compatimento quando quest'ultimo viene espresso.

Il rifiuto del concetto di natura umana come unità inscindibile dell'elemento naturale e dell'elemento storico porta allora ai due errori opposti, speculari e convergenti del biologismo e del sociologismo. Secondo l'approccio biologistico l'uomo è un animale adattativo, più esattamente un ente naturale la cui genericità consiste nella capacità di adattamento intesa in senso lamarckiano e/o darwiniano, e la sua storia si risolve allora in una sorta di etologia cinematografica. Nell'approccio sociologistico, invece, la natura umana è solo una cornice vuota, un foglio bianco, una tabula rasa, su cui la storia scrive tutto ciò che vuole.

L'approccio sociologistico al marxismo, che purtroppo costituisce il 90 per cento del marxismo storicamente riconosciuto come tale nel Novecento, ed è ovviamente una forma di nichilismo pressoché perfetto (il Tempo è Tutto, l'Essere è Nulla), è in realtà una riproduzione del vecchio empirismo inglese di Locke, per cui la mente umana è nulla, e solo le esperienze ci scrivono sopra ciò che può essere conosciuto...

Chi nega la natura umana, e lo fa «da sinistra» convinto che si tratti di un concetto conservatore e reazionario (confondendo così l'uso ideologico del concetto con la sua pertinenza filosofica e ontologica), non capisce purtroppo che proprio il carattere generico
della natura umana stessa è il principale fattore di impedimento alla stabilizzazione di una dittatura manipolatrice, non importa se ispirata al materialismo dialettico di Stalin o al fondamentalismo sionista-protestante di Bush. Se l'uomo non fosse un ente naturale generico, in cui la creatività e la reazione all'oppressione sono elementi non solo storici ma radicati nella più intima struttura antropologica, non scommetterei neppure dieci euro sulle possibilità dei movimenti di resistenza...

A proposito della teoria dell'individualità umana in Marx, possiamo utilmente servirci di un'interessantissima citazione ricavata dai Lineamenti fondamentali della critica dell'economia politica scritti nel 1858 ma pubblicati per la prima volta postumi nel 1939 (e quindi ignoti a tutto il dibattito marxista della Seconda e della Terza Internazionale). Si tratta dei noti Grundrisse, che a partire dagli anni sessanta e settanta hanno do addirittura vita a scuole marxiste originali e indipendenti. Nei Grundrisse non vi sono solo considerazioni sulle forme di produzione precapitalistiche che consentono filologicamente una lettura multilineare della storia, ma si trovano anche quei «frammenti sulle macchine» che consentono di sostenere che Marx (anche se non ha ripreso questo tema nel Capitale e in altre opere edite nel corso della sua vita) riteneva che la produzione di valore avrebbe potuto essere superata già durante la produzione capitalistica avanzata, e che in questo modo il «comunismo» avrebbe potuto diventare all'ordine del giorno sulla base stessa della concezione marxiana della produzione, della circolazione e del consumo.

In questa sede, non intendo aprire una discussione sui rispettivi argomenti delle scuole marxiste che potrei definire «scuola del Capitale» e «scuola dei Grundrisse». L'argomento è interessante, ma riguarda a mio avviso l'identità politica di chi si richiama oggi a Marx più che la vera e propria filologia marxiana e marxista. Io penso infatti che bisogna proprio andare «con Marx oltre Marx», e che dunque questa parola d'ordine sia assolutamente giustificata, ma mi oppongo al modo particolare e alla forma concreta delle teorie più diffuse di chi vuole andare «con Marx oltre Marx». Legittimità del programma, dunque, ma contestazione del modo prevalente di concretizzarlo. Ma basta ora su questo punto. Voglio invece dire che il fatto di scegliere una citazione decisiva dai Lineamenti significa che questa citazione è assolutamente tipica e rivelativa dell'intera concezione teorica di Marx.

La citazione è questa: «Ciascun individuo possiede il potere sociale sotto la forma di una cosa. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovrete darlo alle persone sulle persone. I rapporti di dipendenza personale (all'inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L'indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo. Sia le condizioni patriarcali sia quelle antiche (e anche feudali) crollano perciò con lo sviluppo del commercio, del lusso, del denaro, del valore di scambio, nella stessa misura in cui di pari passo si innalza la società moderna».

I corsivi sono miei, e sono stati introdotti per facilitare al lettore la comprensione dei commenti che farò nei prossimi paragrafi. A mio avviso, questa è la più importante citazione filosofica che si possa fare spigolando nelle pagine di Marx. Nessuna altra citazione le è pari, neppure quelle del giovane Marx sulla «alienazione». Qui Marx compendia la sua filosofia della storia, senza la quale le migliaia di pagine sulla crisi capitalistica, sui profitti e sui prezzi, sulle classi ecc. sono assolutamente mute e prive di qualsiasi espressività. Il fatto è che Marx aveva deciso di respingere la conoscenza filosofica (come ho chiarito nel primo capitolo), ma era nello stesso tempo una persona intelligente, acuta e sensibile, e allora la filosofia non poteva fare a meno di tornare comunque nel processo della sua elaborazione di pensiero. Questa citazione ne è la prova indiscutibile, di fronte a cui cadono tutte le mura althusseriane erette in difesa di una impossibile considerazione «scientifica» del tutto depurata dalla filosofia...

In questa citazione Marx ci offre inconsapevolmente una definizione teorica assolutamente convincente di «modo di produzione» che è al riparo da ogni spiacevole economicismo riduzionistico...

Il modo di produzione è un sistema di ricambio sociale generale. Ricambio significa evidentemente «riproduzione», e questo vuoi dire che non esiste modo di produzione che non sia anche e soprattutto un modo di riproduzione, che riproduca i propri rapporti sociali di produzione attraverso l'uso combinato, ma derivato, sia delle forze produttive sia delle ideologie. Questo significa che la «struttura» di un modo di riproduzione sociale è formata dai soli rapporti sociali di produzione, e non come si dice spesso dalla combinazione fra sviluppo delle forze produttive e natura classista dei rapporti sociali di produzione. Non si tratta di questioni teologiche di lana caprina. Qui il diavolo si nasconde veramente nel dettaglio. La riproduzione del modo di produzione è la riproduzione dei soli rapporti sociali di produzione. Il resto è ovviamente fondamentale, dalle forze produttive alla ideologia, ma è sempre dipendente strutturalmente dai rapporti di produzione. Ogni altra interpretazione è una forma di «economicismo», e dà luogo a un panorama concettuale estraneo a Marx.

Ma Marx aggiunge anche le tre parolette relazioni universali, bisogni universali e universali capacità. Il fatto che il comune aggettivo qualificativo sia «universale» non deve stupirci, perché è proprio in base a questo fatto filologicamente indiscutibile che ho dedicato l'intero terzo capitolo al problema dell'universalismo. Certo, un universalismo multilineare e non unilineare, ma pur sempre un universalismo, o più esattamente un pensiero a vocazione universalistica. La paroletta «relazioni» indica che Marx pensa sempre in termini di rapporti, e che pertanto non possono esistere «fondamenti» filosofici del suo universalismo comunista che non siano di tipo relazionale e dialettico. E’ questo un punto filosoficamente essenziale.

Marx non è un pensatore dell'Uno, o del fondamento inteso come unità. Ciò significa che anche il suo comunismo del futuro, al di là di tutte le ovvie componenti utopistiche, è pensato come sistema di relazioni universali fra enti distinti, e non come comunione organicistica di una società trasparente a se stessa e a tutti i suoi membri. Il pensiero di Marx è intimamente non organicistico, e quindi non totalitario. Questo è filologicamente documentabile, e separa radicalmente Marx da tutte le varianti del neoplatonismo moderno che insistono nel concepire e nel pensare il fondamento come Unità, e pertanto il comunismo come Comunione. Dio ci scampi e liberi da questi preti travestiti!

Il comunismo di Marx non è una Comunione nell'Amore, in cui appunto i corpi e gli spiriti si fondono in uno in un'estasi amorosa, ma una Società dell'Amicizia in cui i diversi enti nazionali, individuali e sociali entrano in relazione reciproca senza dover preventivamente rinunciare alla loro identità. Il carattere «universale» di queste relazioni fra distinti sta solo nel fatto che queste relazioni sono «universalizzabili». Ma chi può decidere quali siano le relazioni universalizzabii e quali no, per cui per esempio il dialogo fra le religioni è universalizzabile mentre il rogo degli eretici non lo è? La risposta è semplice: il dialogo universale, la messa in mezzo del lògos razionale, l'unità tra filosofia e democrazia...

Marx non ha dunque del comunismo una concezione organicistico-totalitaria, perché lo concepisce come un sistema di relazioni universali fra distinti non «dialettizzabili» in una Unità Organicistica Finale, e neppure una concezione ascetico-moralistica, perché lo concepisce come luogo di soddisfacimento di bisogni ricchi e onnilaterali. Si tratta di un risultato teorico inestimabile, rimasto generalmente ignoto per la presenza asfissiante e soverchiante di sognatori dell'abbraccio organicistico amoroso universale e di critici moralistici della felicità, che non passa certamente attraverso il consumo, sia chiaro, ma che comunque inevitabilmente «consuma» anche beni e servizi...

E’ necessario fare una breve riflessione sul perché Marx abbia utilizzato il termine persona (e l'aggettivo personale) parlando dei rapporti sociali precapitalistici e capitalistici (dipendenza personale e indipendenza personale), mentre per alludere al comunismo abbia invece usato il termine di individuo (libera individualità). Si tratta di una questione cruciale...

Marx parla di dipendenza personale (caratteristica dei modi di produzione precapitalistici, asiatico, schiavistico, feudale ecc.) e di indipendenza personale (caratteristica del solo modo di produzione capitalistico) perché possiede una ben precisa nozione di persona. Questo termine proviene dalla traduzione latina del greco pròsopon, che non significa viso, faccia, identità di carattere, ma maschera teatrale (tragica e/o comica), ed è perciò non un vero e proprio «soggetto», ma solo il soggetto di un ruolo. La persona è dunque per Marx una «maschera di carattere» (Charaktermaske). In quanto maschera di carattere, la persona non è ancora una vera e propria individualità reale, dunque non può diventare una «libera individualità»...

Se il termine di persona (pròsopon) rimanda alle «maschere di carattere» che i ruoli sociali differenziati costringono ad assumere, il termine di individuo, più esattamente di libera individualità, permette di scendere veramente in profondità nel pensiero di Marx, cioè di quest'uomo che (in questo simile per molti aspetti a Gunther Anders) non voleva fare della filosofia, ce l'aveva con la filosofia dei filosofi accademici (e aveva ovviamente in buona parte ragione), ma poi faceva della altissima filosofia, perché è difficile che una persona geniale riesca a non farla, al di là della sua falsa coscienza ideologica personale e dei suoi fantasmi polemici biograficamente spiegabili. In ogni caso, il termine «libera individualità» comprende un aggettivo e un sostantivo, che si possono trattare separatamente per maggiore chiarezza interpretativa ed espositiva.

Se Marx è un pensatore della libertà, e lo è sicuramente, lo è però soltanto se la libertà viene declinata come un aggettivo qualificativo e non come un sostantivo, che la trasformerebbe subito in una sorta di sostanza metafisica di fatto astorica, e cioè non spaziale e non temporale. In termini telegrafici, Marx è un pensatore della libertà, ma non un sostenitore della Religione della Libertà, e uso questa parola proprio perché è stata usata da pensatori considerati «laici» e non direttamente religiosi (Benedetto Croce ecc.). Questo concetto può essere espresso anche dicendo che Marx declina la nozione di libertà solo in un contesto di processo dialettico di liberazione da un precedente stato di alienazione, secondo l'inarrivabile modello del rapporto fra servo e signore così come Hegel lo ha disegnato nella sua Fenomenologia dello Spirito...

[Per quanto riguarda il concetto di individuo] un buon modo per avvicinarsi a questo argomento consiste nell'analizzare un interessante slittamento semantico di Marx dal 1844 al 1858...

Ho già fatto ampiamente riferimento in precedenza al concetto di ente naturale generico (Gattungswesen) come del concetto filosofico-antropologico fondamentale di Marx. Nel 1844 Marx è già in grado di capire che la «naturalità» di questo ente generico consiste proprio nella «socialità», e perciò naturalità e socialità fanno tutt'uno, per cui l'uomo è un ente generico a un tempo naturale e sociale...

Vi è però una difficoltà terminologica che può dare luogo a equivoci interpretativi. Con il termine «naturale» Marx intende, da un lato, l'elemento naturale generico e perciò antropologico, ma intende anche dall'altro lato le società comunitarie precapitalistiche, definite spesso «società naturali», quando naturali certamente non sono ma sono anch'esse ovviamente del tutto storiche. Da qui nasce anche l'equivoco precedentemente segnalato per cui la nozione di «alienazione» può essere erroneamente intesa come ritorno a una situazione originaria splendida purtroppo perduta e come restaurazione della vera comunità organica. Si tratta del noto «mito del buon selvaggio» metabolizzato filosoficamente dalle utopie settecentesche che si insinua sotterraneamente nel corpus teorico marxiano attraverso una lettura scorretta del Marx del 1844. Nei termini di Monod, questa è una ontogenesi immaginaria che più immaginaria non si può. L'uomo come essere «naturale» viene scambiato con l'uomo come «essere tribale».

Questi equivoci spariscono nel 1858. Scrive Marx: «L'uomo è nel senso più letterale del termine uno zoon politikon, non soltanto un animale socievole (em geselliges Tier), ma un animale che non può costituirsi come individuo singolo (sich vereinzeln) che nella società».

E aggiunge: «L'uomo non si individualizza che nel corso di un processo storico. In origine egli appare come un ente generico (Gattungswesen), un ente tribale (Stammwesen), un animale gregario (Herdentier), ma per nulla come uno zoon politikon in senso politico»...

Il nostro amico nel 1844 confondeva ancora naturale con tribale, società naturali e società contadine ecc., oltre a non avere chiaro che il superamento delle alienazioni capitalistiche non può consistere in un «ritorno» alla vera società naturale trasparente basata sui « veri bisogni naturali dell'uomo». Ma-nel 1858 egli si era del tutto lasciato dietro questa confusione terminologica, e parlava del processo di individualizzazione in termini storici, accettando in modo pressoché integrale la definizione aristotelica di uomo (politikòn zòon)...

Ora appare alla luce del Sole che la filosofia greca classica è una fonte integrante del pensiero di Marx. Essa però lo è ancora di più di quanto la stragrande maggioranza dei commentatori pensi. A rischio di espormi in una tesi radicale, dirò che essa è la fonte filosofica principale, anche se implicita, per le ragioni esposte nel primo capitolo sullo (errato) rifiuto di Marx del valore veritativo della conoscenza filosofica. La fonte teorica propriamente detta di Marx resta la critica dialettica dell'economia politica, e su questo non ci sono dubbi, ma tale critica teorica è inserita in una più ampia fonte filosofica che la rende espressiva, e questa è la ripresa della saggezza greca classica. Altro che Gerusalemme! Atene, Atene, tre volte Atene!..

Una teoria della libera individualità come unica base antropologica del comunismo del futuro è del tutto inutile e astratta, perché nessuno di noi sa se questo comunismo del futuro verrà o non verrà, mai...

Dobbiamo allora limitarci a parlare sensatamente della «libera individualità» come categoria del presente, e non di un lontano nebbioso e lattiginoso futuro.

In questo senso è giusto riprendere la tesi a suo tempo avanzata dallo studioso tedesco Klaus Ottomeyer, per cui ogni teoria marxista dell'individuo sociale moderno deve riuscire a pensare contemporaneamente la doppia natura di maschera economica e di identità dell'io, nel senso freudiano del termine (Mo come momento di equilibrio fra le opposte esigenze dell'Es e del Super-io). Da un lato, siamo costretti a essere e ad assumere delle «maschere di carattere» a causa dei ruoli oggettivamente antagonistici che ricopriamo entro una divisione gerarchica del lavoro in cui i differenziali di potere sono anche le matrici dell'accesso differenziato ai piaceri (più esattamente all'esaurimento dei desideri), alle ricchezze (cioè alla disponibilità di denaro per avere beni e servizi) e infine agli onori (intesi come accesso alla visibilità narcisistica e al riconoscimento sociale dei cosiddetti «meriti»). Dall'altro, in questo carnevale tragicomico della lotta fra maschere di carattere fiorisce anche l'identità dell'io, cioè la possibilità di una vita in qualche modo «sensata», la cui sensatezza è appunto la posta in gioco del destino dell'individuo nella contemporaneità.

Il citato Ottomeyer imposta la questione in modo veramente ammirevole, perché si tiene lontano sia dal catastrofismo per cui nel capitalismo sarebbe impossibile condurre una vita minimamente sensata, sia dall'adattamento al sistema per cui la sensatezza della singola esistenza può essere ottenuta solo con una sostanziale interiorizzazione dei valori riproduttivi del capitalismo stesso, magari reinterpretati in senso riformistico, keynesiano, progressista ecc. L'io può dunque in una certa misura opporsi al destino che vorrebbe inchiodarlo alla «maschera di carattere» del sistema sociale dello sfruttamento...

Marx fa indubbiamente parte della tradizione »individualista» del pensiero europeo occidentale, pur occupando una posizione particolare diversa da quelle dell'individualismo liberale tradizionale (Smith, Tocqueville ecc.). E’ questa un'assoluta ovvietà filologica, sempre rimossa dalla tradizione marxista successiva. Se infatti si chiedesse a un qualunque «marxista», ivi compreso un intellettuale di professione e non un semplice militante di base, se Marx sia un pensatore della libertà oppure dell'eguaglianza, oppure se sia un pensatore del collettivismo oppure dell'individualismo, la risposta sarebbe nel 9 per cento dei casi che Marx era un pensatore dell'eguaglianza e del collettivismo. Le cose stanno esattamente al contrario. Marx, in modo filologicamente documentabile, era un pensatore della libertà e dell'individualismo, anche se ovviamente bisogna aggiungere che era per una libertà comunista e per un individualismo sociale.

Uno dei pochi studiosi che ha capito la relazione fra Marx e l'individualismo è stato il francese Louis Dumont, autore di uno studio magistrale sul tema...

Louis Dumont ricostruisce nel suo notevole libro la formazione dell'ideologia economica, finendo con l'inserirci completamente dentro anche Marx (secondo una prospettiva poi ripresa anche da Alain de Benoist). L'ideologia economica, secondo Dumont, consiste nel passaggio dalla vecchia impostazione dell'accrescimento della ricchezza a quella della sua vera e propria creazione (attraverso il lavoro dell'uomo). Se ancora per Quesnay e i fisiocratici la ricchezza consisteva essenzialmente nei valori d'uso creati dalla Natura per i bisogni dell'uomo, per Smith invece la ricchezza si fonda sul valore di scambio creato dal lavoro. Marx erediterebbe questa impostazione individualistico-lavorativa, semplicemente «collettivizzandola», ma senza recuperare il cordone ombelicale con il presupposto naturale ancora presente nei fisiocratici.

Personalmente, credo che l'interpretazione di Dumont e di de Benoist non sia corretta, perché il lavoratore cooperativo collettivo associato di cui parla Marx non è assolutamente il «successore socialista» del Robinson Crusoè smithiano, ma è qualcosa di radicalmente diverso, che può recuperare un diverso rapporto organico con il presupposto materiale del lavoro, che resta ovviamente la natura. Insomma, marxismo ed ecologia sono assolutamente compatibili e anzi complementari, se ovviamente ci si libera di una lettura economicista del marxismo tramandata nell'ultimo secolo.

Vi è però un punto in cui Dumont coglie un aspetto reale. Marx sarebbe infatti, filosoficamente parlando, un individualista di origine etica, perché alla base del suo lavoro scientifico di studio della dinamica di riproduzione dei modi di produzione ci sarebbe sempre il riscatto dell'uomo da tutto ciò che lo tiene in condizioni di dipendenza (o di falsa indipendenza, come nel caso borghese-capitalistico). Questa tesi di Dumont a mio avviso può essere tranquillamente accettata. Dumont si serve di due coppie categoriali oppositive (gerarchia/eguaglianza e olismo/individualismo) per sostenere che le società basate sulla ricchezza fondiaria sono di regola gerarchiche e olistiche, mentre quelle basate sulla ricchezza mobile sono invece egualitarie e individualistiche.

L'egualitarismo, ovviamente, non dev'essere inteso come livellamento egualitario dei consumi, ma solo in quanto eguagliamento preventivo degli individui in quanto presupposto della successiva diseguaglianza materiale frutto dell'attività economica differenziata.

Qui Dumont coglie bene il fatto che lo spirito del capitalismo non è assolutamente disegualitario, anzi è molto egualitario, nel senso ovviamente dell'eguagliamento antropologico degli individui ridotti a unica «sostanza» imprenditoriale, acquisitiva e trafficona. Chi frequenta la cosiddetta «società» sa bene che sono molto più disegualitari gli intellettuali ulivisti snob dei venditori di tappeti berlusconianj. Marx è certamente un pensatore dell'eguaglianza, ma lo è soltanto se si capisce che prima di tutto è un critico dell'eguagliamento capitalistico, e parte da questo eguagliamento, non certo da una critica moralistica e livellatrice alla diseguaglianza nel consumo di beni e di servizi, che è una conseguenza secondaria, non un presupposto primario. Comunque la si giri, è sempre l'individuo singolo concreto la preoccupazione teorica di Marx.

Nella storia del marxismo novecentesco la questione dell'individuo singolo e del suo destino ha avuto molte risposte. Qui mi limiterò a ricordarne tre, e cioè il problema del rapporto fra marxismo e psicoanalisi, il problema della teoria marxista della personalità e infine il problema del rapporto fra marxismo e vita quotidiana.

Da più di ottant'anni il problema del rapporto fra teoria marxista e teoria psicoanalitica si pone in termini di «integrazione» di una convincente ipotesi di formazione della personalità entro una teoria considerata buona per capire la cosiddetta «economia», ma cattiva, riduzionistica e insufficiente per comprendere l'«individuo concreto». E ben noto che Freud non si interessò mai seriamente di marxismo, che considerava superficialmente come una sorta di secolarizzazione messianica, e quindi utopica e impraticabile, laddove il suo punto di riferimento culturale e morale era una sorta di società borghese il più possibile autoconsapevole. Tuttavia, possiamo tranquillamente ammettere che ciò che pensava Freud del comunismo e del marxismo non ha molta importanza, mentre è più importante comprendere fino a che punto le due teorie possono essere fatte incontrare in un benefico rapporto di reciproco arricchimento.

Mi sembra chiaro che esse possono essere fatte incontrare, e il solo problema sta nel fatto che spesso questo incontro è fatto in modo frettoloso e dilettantesco. Negli anni venti e trenta il loro incontro fu ampiamente praticato soprattutto nei paesi di lingua tedesca, e diede luogo a versioni molto radicali come quella di Wilhelm Reich, che vide nella miseria sessuale delle masse la ragione «del più grande enigma della storia» (come si diceva a quei tempi), e cioè del perché le masse vanno sistematicamente contro i loro stessi interessi e sostengono infallibilmente forze che preparano loro miseria, diseguaglianza, disoccupazione, insicurezza e guerra. Com'è noto, una versione più moderata e sofisticata dell'ipotesi di Reich fu poi esposta da Horkheimer e Adorno nei loro studi sulla formazione della personalità autoritaria in Germania e negli Stati Uniti. In generale con il passaggio «da sponda a sponda» degli intellettuali di lingua tedesca, in gran parte di origine ebraica, che ebbe luogo a partire dal 1933 e dalla presa del potere di Hitler, ci fu un «adattamento » della fusione di marxismo e psicoanalisi dalla primitiva versione «estremistica» di Wilhelm Reich a una versione più «moderata» alla Erich Fromm. Non si trattava più di consentire ai proletari l'accesso alla sessualità libera, ma di imparare l'arte d'amare. Il destinatario non era più Lenin, ma Woody Allen.

Questo processo di adattamento e di incorporazione addomesticata del messaggio psicoanalitico si sviluppa progressivamente a partire dal 1945. Eppure, l'incontro fra marxismo e psicoanalisi caratterizza quello che per me resta uno dei più grandi pensatori del secolo, e cioè Herbert Marcuse. Marcuse è morto nel 1979, ed è oggi quasi dimenticato. C'è la tendenza a vederlo in modo riduttivo come il «pensatore del Sessantotto» e il mentore degli studenti ribelli dei campus. Non nego che anche questo aspetto esista. Ma Marcuse è molto di più. Il suo insegnamento mi sembra assolutamente attuale, perché il problema del rapporto fra le strutture della personalità e le strutture sociali corrispondenti, che è il problema antropologico per eccellenza, viene posto da Marcuse con estrema chiarezza. La mia opinione è che il marxismo dei nostri anni deve ripartire da qui, ammesso che voglia e possa ripartire, e che Marcuse abbia a suo tempo impostato la questione in modo a tutt'oggi non ancora superato.

Era inevitabile che vi fossero anche delle correnti marxiste che hanno voluto seguire una via non psicoanalitica, e dunque non freudiana, per la costruzione di una psicologia. Esse sono state numerose. Richiamo qui solo la via elaborata dal francese Lucien Sève, che ha cercato di mettere in rapporto la nozione di personalità integralmente sviluppata con l'impiego relazionale del tempo complessivo dell'esistenza. Le critiche di Sève al freudismo ricordano per molti versi le critiche di Marx al robinsonismo, e sono cioè fatte sulla base di una decostruzione del presupposto atomistico nella considerazione del soggetto. Questa critica però riesce meno bene, perché mentre l'economia politica inglese ha veramente un presupposto atomistico e quindi robinsoniano, la teoria di Freud non è affatto atomistica, ma è fin dal principio fortemente relazionale. Si tratta ovviamente di relazioni familiari, ma il freudismo può sopravvivere anche all'evidente tramonto della famiglia patriarcale tradizionale in cui il padre è il custode severo del Super‑io, nella misura in cui le sue topologie vengono rese più flessibili. Nel dibattito francese di quegli anni la psicologia propugnata da Sève volle essere polemica contro il freudisrno considerato «borghese» o «piccolo‑borghese». Oggi, superate queste sciocchezze ideologiche a base pseudo‑classista, ultimo canto del cigno di una fase storica che si stava consumando, l'impostazione di Sève continua ad avere una certa validità, perché la questione del controllo del tempo di vita contro la colonizzazione del consumismo forzato è oggi ancora più cruciale di quanto lo fosse più di trent'anni fa.

E questo ci porta al problema del rapporto fra marxismo e vita quotidiana, che resta il grande contributo dell'ultimo Lukács al marxismo novecentesco, e che merita di non essere dimenticato.

Negli anni venti Lukács aveva già elaborato una sua versione originale del marxismo con un'opera pubblicata nel 1923, Storia e coscienza di classe. In quest'opera, destinata a un effimero revival intorno al 1968, Lukács prendeva atto del fatto che la rivoluzione russa del 1917 aveva causato una rottura politica con il vecchio socialismo secondinternazionalista, ma questa rottura politica non si era accompagnata a una rottura teorica corrispondente, e infatti il manuale di materialismo storico pubblicato in russo da Bucharin nel 1921 continuava a presentare la teoria di Marx secondo le vecchie coordinate economicistiche della tradizione marxista precedente. Lukács proponeva un nuovo paradigma teorico, che fu poi successivamente battezzato in modo un po' improprio «marxismo occidentale», fondato non sulla crescita delle forze produttive assimilata a un «processo naturale», ma sull'idea che il proletariato fosse la sola classe in grado di impersonare il senso complessivo della storia universale. Questo universalismo, ovviamente, era del tutto astratto e aprioristico, e aveva due caratteristiche fondamentali. Era «contrastivo», in quanto l'universalità astratta del proletariato, unica classe a non avere interessi egoistici da preservare e pertanto priva della necessità di elaborare forme di falsa coscienza ideologica pseudo‑universalistica per giustificarne il mantenimento, era contrapposta per contrasto alla non‑universalità della borghesia, che per riprodursi doveva invece giustificare la perpetuazione della produzione di plusvalore e dello sfruttamento connesso. Ed era anche «idealtipico», in quanto non si parlava di proletariato come insieme empirico e sociologico di tutti i proletari salariati effettivamente censibili, la cui maggioranza era chiaramente priva della coscienza di classe necessaria per fare la rivoluzione, ma si alludeva a un proletariato weberianamente idealtipico.

Questa proposta contrastiva e idealtipica, basata sull'unità idealistica di soggetto e di oggetto (e cioè di proletariato e di storia universale), fu respinta dal movimento comunista internazionale, che ufficializzò e rese obbligatoria a partire dal 1931 la versione staliniana del materialismo storico e dialettico. Con il senno del poi, si trattò di una scelta del tutto logica, perché la burocrazia comunista, che proprio in quegli anni secondo l'analisi di Charles Betteiheim si stava costituendo in nuova e inedita classe dominante (di tipo «asiatico », secondo la successiva interpretazione già ricordata di Rudolph Bahro), doveva costruirsi una falsa coscienza ideologica in cui il proprio dominio era «naturalizzato» e garantito dal ben noto intreccio di pseudo‑scienza e di quasi‑religione.

Lukcs vide respinta la propria proposta, ma non per questo abbandonò il movimento comunista. Senza esservi costretto, abbandonò invece la propria proposta teorica del 1923 per un altro paradigma filosofico elaborato a partire dal 1956, quello dell'ontologia dell'essere sociale. Incidentalmente, segnalo qui che lo considero il migliore paradigma teorico mai elaborato dal movimento comunista del Novecento, il che non significa che non abbia anche difetti molto gravi, che però non possono essere esaminati in questa
sede. Questo paradigma è costruito su alcuni presupposti, di cui ne ricorderò qui solo tre. In primo luogo, si respinge la tesi di Engels e di Lenin sulla sostanziale unità delle leggi della dialettica naturale e sociale, e si sceglie di elaborare una sola dialettica specifica, quella ontologico‑sociale (e il sistema scolastico marcio e corrotto dei sistemi politici del comunismo storico novecentesco si chiuse a riccio contro questa proposta, mantenendo fino al 1989 la carcassa positivistica del materialismo dialettico, che era appunto la bara simbolica che portava il suo cadavere). In secondo luogo, il principio fondamentale di questa nuova ontologia dell'essere sociale veniva individuata nel lavoro (Arbeit) come modello (Vorbild) e forma originaria (Utform) di ogni prassi.

Tradotto in linguaggio comune, voleva dire che se il socialismo non viene costruito come un'azione teleologica cosciente da solo non verrà mai, tanto meno come derivato automatico della famosa crescita delle forze produttive. In terzo luogo, venivano individuate tre e solo tre forme di conoscenza specifica, chiamate «rispecchiamenti» (in consapevole continuità con la teoria leniniana del rispecchiamento), e cioè il rispecchiamento quotidiano, il rispecchiamento scientifico e il rispecchiamento artistico.

Faccio qui notare che in questa impostazione la religione ovviamente non è un vero rispecchiamento, ma solo una costruzione ideologica antropomorfizzante basata sulla domanda di senso proveniente dal rispecchiamento quotidiano; neppure la filosofia lo è, perché il suo status è solo quello di una ideologia particolarmente sofisticata e colta. In questa scelta (o meglio, in questa non‑scelta) io vedo l'assoluta irriformabilità e incorreggibilità del marxismo novecentesco. Se persino il suo esponente più alto e rispettabile, dotato di un talento filosofico indubitabile, respinge il messaggio greco del carattere veritativo della specifica conoscenza filosofica, allora se ne deve concludere (e io almeno ho concluso) che il malato è incurabile, e che bisogna allontanarsi dalla casa della sua agonia. Il ritorno ai greci è a mio avviso non il programma massimo del presente, ma il programma minimo. Se non lo si vuole fare, è sempre possibile parlare di cinema, di calcio, di viaggi e di amici comuni, ma non di marxismo e filosofia. La carcassa composta di storicismo, economicismo e utopismo è sotto i nostri occhi. Se non la si vuole seppellire, allora si accomodino a vegliarla gli ultimi eremiti, mentre gli ultimi uomini se ne sono già andati con sorrisini di scherno a perpetrare bombardamenti umanitari e manovre economiche contro il welfare state.

A Lukács mancò il coraggio di ristabilire i diritti della conoscenza filosofica, e non poteva rompere in modo tanto esplicito con la scelta fatta da Marx e richiamata nel primo capitolo di questo libro. Ma la lunga esperienza maturata nel corso di mezzo secolo di militanza comunista lo portò a capire che il terreno della vita quotidiana era il solo che poteva sfuggire alla manipolazione burocratica, e dunque il solo da cui ripartire per una prospettiva sensata. In questo senso l'ultimo Lukács resta uno dei pochi marxisti del Novecento ancora attuali, e le cui teorie non siano ormai soltanto archeologia ideologica pura.

Alla luce dei tre modelli richiamati in precedenza (marxismo e teoria psicoanalitica, marxismo e teoria della personalità, marxismo e vita quotidiana) voglio ancora segnalare quelli che a mio avviso sono i due modelli antropologici che possono meglio caratterizzare il mondo del socialismo reale ormai defunto e il mondo dell'attuale capitalismo fiorente. Si tratta del modello del «sosia socializzato» studiato da Ernst Fischer e il modello dell'«io minimo» studiato da Christopher Lasch.

Ernst Fischer è un marxista austriaco che ha vissuto gli anni del nazismo e dello stalinismo, proprio quelli che danno spunto oggi agli interminabili discorsi sul «secolo delle idee assassine», sul «secolo mostruoso», sul Novecento secolo da lasciarci alle spalle, in vista del luminoso futuro della mercificazione universale, dell'impero americano unico bombardatore autorizzato del pianeta e di una vita resa «flessibile» dal lavoro precario e dalla distruzione di qualunque protezione sociale. A differenza del coro della damnatio memoriv del Novecento, coro composto da universitari sazi e da giornalisti satolli, non costretti alla prostituzione e al vagabondaggio come i profughi dei popoli dell'ex socialismo reale dissolto, Ernst Fischer ha visto fino in fondo l'orrore staliniano del comunismo storico novecentesco, ed è rimasto «comunista» lo stesso, evidentemente perché disponeva di un concetto alternativo di comunismo, e aveva fondato nella sua coscienza un partito comunista personale di cui era l'unico iscritto. Io stesso non intendo affatto nascondere un mio profondo convincimento: se fossi convinto che il comunismo può soltanto essere il modello storico, politico e culturale che abbiamo conosciuto, lascerei perdere ogni proposta di ripresa del marxismo.

Secondo Fischer il modello antropologico creato dal comunismo storico novecentesco è quello del «sosia socializzato». Il sosia socializzato è un individuo sdoppiato, schizofrenico nei suoi rapporti con il mondo e paranoico nel suo percepire il mondo come una somma di pericoli e di nemici. Il nichilismo è di fatto la sua unica identità ideologica possibile, perché lo hanno abituato ad avere un «pensiero magico» (secondo la formulazione insuperabile dell'ex comunista polacco Kolakowski), in cui la fonte impura contamina il contenuto del messaggio, e allora se i trockisti dicono che esistono i gulag di Stalin questo non può che essere una perfida invenzione della borghesia imperialista, mentre se la stessa cosa la dice Chruscev, papa della Chiesa comunista internazionale, essa diventa una tragica verità. Il sosia socializzato è abituato a uno sdoppiamento permanente: la vita personale e gli amici fidati cui confidarsi e la vita pubblica piena di spioni politici «socializzati». A fianco della identità dell'io sempre più debole vi è appunto il «sosia socializzato», quello che accetta tutte le menzogne pubbliche sospirando in nome del «realismo politico» e della «situazione di emergenza». Alla fine l'emergenzialismo permanente gli ha succhiato il cuore e lo spirito, e allora la sola alternativa praticabile è da un lato la schiavitù spirituale socializzata fino alla morte oppure la frenetica attesa del capitalismo liberatore.

La tragicomica dissoluzione del comunismo storico novecentesco, consumatasi in un'ammirevole unità teatrale di tempo e di luogo fra il 1987 e il 199 1, ha visto la «messa in libertà» di milioni di sosia socializzati, simili ad animali da pelliccia liberati dai recinti ma anche costretti a procurarsi il cibo da soli. Nessuno ha saputo descrivere la miseria antropologica del sosia socializzato come il comunista Fischer. Gli scrittori anticomunisti tradizionali sono in confronto dei filocomunisti ingenui, perché solo chi ha conosciuto il comunismo dall'interno può sapere fino a che punto di abiezione ha spinto il suo modello di riferimento psicologico e antropologico, e cioè il nichilismo puro rivestito da chiacchiera ideologica inconcludente. Ma l'«uscita capitalistica» da questa consapevolezza è come passare dalla padella nella brace. L'essere umano non è un sosia socializzato, e alla fine si ribella. Chi crede ancora che il comunismo storico novecentesco sia stato sconfitto per ragioni economiche o tecnologiche (anche se ovviamente non nego il loro ruolo, comunque secondario) non capisce nulla della questione. Il comunismo è stato sconfitto per ragioni squisitamente antropologiche. Ha prodotto milioni di sosia socializzati, contro l'esplicita indicazione di Marx (libera individualità ecc.), e alla fine il tetto della baracca gli è crollato addosso.

Se il comunismo storico novecentesco ha prodotto su scala industriale la figura antropologica del «sosia socializzato», il moderno capitalismo produce invece su scala allargata la figura dell'«io minimo», secondo la felice formulazione di Christopher Lasch. L'io minimo è l'unità psicologica minima di sopravvivenza in un mondo che ha eliminato il passato come fonte di legittimazione dei costumi e della morale e ha reso il futuro incerto e flessibile. Lasch ha ovviamente davanti agli occhi la situazione americana, ma la spregevole e preoccupante americanizzazione cui siamo confrontati oggi fa pensare che il suo scenario si stia avvicinando in modo preoccupante...» (pp. 155-200 passim)

Le conclusioni cui giunge Preve sono le seguenti:

«La ricostruzione di una prospettiva marxista credibile, a più di centoventi anni dalla morte di Marx (1883-2003) non è ancora all'ordine del giorno. Personalmente, non so neppure se lo sarà mai. E tuttavia, c'è nel pensiero di Marx una «eccedenza», un oltre rispetto alle sue penose realizzazioni storiche che non va dimenticato. Personalmente, non posso non dirmi marxista. Questo può suonare un po' comico, perché il lettore se ne è sicuramente già accorto. E questo mi permette di passare alle ultime osservazioni finali. Se esse serviranno ad aprire una discussione, e non a chiuderla, questo modesto lavoro sarà servito a qualcosa.

Senza conoscenza filosofica, e più esattamente senza una pratica veritativa della comunicazione filosofica, non c'è democrazia, e non c'è possibilità di interrogare razionalmente la religione e la scienza. Da sole, la religione e la scienza sono autoreferenziali. Applicate a una ideologia non consapevole di essere tale, esse si trasformano in una quasi-religione e in una pseudo-scienza. Abbiamo troppo a lungo sorriso con complicità a coloro che hanno sempre disprezzato la filosofia, ed erano disposti ad ammetterla solo come epistemologia e/o come ideologia. Bisogna adesso essere più decisi e più fermi. Hanno fatto molto male, continueranno a farlo, è inevitabile che lo facciano, ma almeno ci si chiariscano le idee sull'argomento.

Lo storicismo è un grande contenitore spazio-temporale di una illusoria grande narrazione teleologica e provvidenzialistica della storia. Con esso non si possono fare veri compromessi. Bisogna congedarsene con educata e irremovibile fermezza. I politici perderanno una risorsa retorica di manipolazione, i militanti perderanno una illusione esistenziale che garantiva un malinteso e infondato senso di sicurezza. Ma si è già rimandata troppo questa operazione salvavita.

L'economicismo è la religione della salvezza dell'umanità attraverso lo sviluppo delle forze produttive, della tecnologia e dei consumi da essa permessi. Mentre l'«economicizzazione del conflitto» è purtroppo stata un dato storico inaggirabile, l'economicismo è qualcosa che invece può essere aggirato. Se non lo si fa, tanto vale andare tutti a casa.

L'utopismo è la proiezione di una fantasia sociale comunitaria, in cui però i comportamenti vengono dolcemente prescritti come razionali e corrispondenti alla vera natura dell'uomo. Bisogna rinunciarci. In un bellissimo romanzo utopico della scrittrice americana Ursula Le Gum, in cui vengono descritte due società contrapposte, una di tipo capitalistico-acquisitivo e l'altra di tipo comunista-anarchico a un certo punto si dice: «La società può chiedere il sacrificio, non il compromesso». Si tratta di un pensiero molto profondo. Nella sua libertà, dato antropologico fondato sul carattere generico della sua natura umana, e dato che nessun dispotismo di tipo comunista o capitalista potrà mai estirpare, l'uomo può accettare e accetta continuamente sacrifici. Ma alla lunga non può accettare compromessi, e accettare di essere ridotto all'alternativa fra essere un io minimo e un sosia socializzato.

Con questo, siamo arrivati all'ultimo paragrafo dell'ultimo capitolo. Il lettore potrebbe chiedersi: che cosa vuole, che cosa auspica l'autore dalla lettura di questo suo libro?

L'autore auspica ciò che si chiama nella psicologia della forma un riorientamento gestaltico. Il riorientamento gestaltico si ha quando si fissa lo sguardo su di una immagine nota, poniamo l'immagine di una piccola anatra, e improvvisamente davanti agli occhi non abbiamo più una piccola anatra, ma un coniglietto. Ciò che prima era un becco d'anatra diventa il grande orecchio di un coniglio.

Credo che anche il marxismo abbia bisogno di un riorientamento gestaltico, e che se questo non verrà in tempi ragionevoli una discussione non potrà mai ripartire. Ho già insistentemente (forse troppo insistentemente) sostenuto che senza liberarci dello storicismo, dell'economicismo e dell'utopismo questo riorientamento gestaltico non verrà mai. Ma la mescolanza di questi tre elementi ideologici rappresenta la forma, la Gestalt di quasi tutte le sette marxiste presenti sul mercato delle idee. Ciò che passa sotto il nome di marxismo si identifica di fatto al 100 per cento con una sintesi ideologica di storicismo, di economicismo e di utopismo.

Non so se questo riorientamento gestaltico potrà avvenire mai. Ma se per caso cominciasse a profilarsi, allora molti falsi problemi sparirebbero. Sparirebbe il falso problema dell'identificazione del problema del «marxismo» con il problema della cosiddetta «sinistra», e sarà sempre più chiaro ciò che oggi appare ancora grottesco e scandaloso, e cioè che il futuro del marxismo, ammesso che esista, è del tutto al di là della dicotomia Destra/Sinistra, dicotomia che viene oggi reimposta come protesi elettoralistica artificiale di tipo bipolare maggioritario. Anche un bambino capisce che oggi o si giustifica la guerra imperiale oppure no, e questa distinzione radicale conta mille volte di più delle distinzioni obsolete fra laici e cattolici o fra destra e sinistra.

Anche una teoria politica del nuovo marxismo, oggi del tutto assente (visto che le sfilate - pacifiche o violente - e le cosiddette «proposte» non fanno una teoria politica), forse verrà. Ma non verrà nulla senza un radicale riorientamento gestaltico. A esso si oppone concordemente gran parte del cosiddetto establishment marxista e di «sinistra», per ora vittoriosamente. Questo invece auspica questo libro. Qui sta la «ragion sufficiente» della sua pubblicazione e della sua lettura.» (pp. 200-201)

3.
      Un mio vecchio amico, Paolo Sergola, marxista e studioso di filosofia, ha recensito per il sito Nilalienum il libro di Preve,

Il testo integrale della recensione è il seguente:

«Presupposto di Preve è che, se lo statuto di tutte le teorie scientifiche è di essere esposte al criterio di falsificazione, la storia ha di fatto smentito le due previsioni fondamentali di Marx. Quella di una crescente incapacità della borghesia a sviluppare storicamente le forze produttive entro la struttura antagonista dei rapporti di classe del modo di produzione capitalistico e quella, complementare a questa, di una capacità politica della classe operaia a porsi a guida di una transizione intermodale, da un modo di produzione cioè, il capitalismo, ad un altro modo di produzione che ne rappresenta il superamento, il comunismo. L’invito di Preve è quindi a spostare l’accento dalle forze produttive, il cui sviluppo, seppur distorto ed ineguale, è in continua espansione, ai rapporti di produzione, questi si in inarrestabile crisi mondiale. Ciò ci permette di restare dentro Marx e ci consente di utilizzare quella parte ancora valida ed attuale del suo pensiero e cioè l’analisi delle contraddizioni dello sviluppo capitalista.

Questo sforzo di attualizzazione delle teorie marxiane non è, secondo Preve, un astratto bisogno teoretico ma nasce dall’esigenza pratica di gettare le basi, nel presente, di una rifondazione di un nuovo paradigma anticapitalista. Tale paradigma sarà credibile, però, solo se gli elementi costitutivi del pensiero di Marx, e le connesse ricadute ideologiche, verranno sottoposti a profondo vaglio critico. Preve li circoscrive a tre. Essi danno luogo a tre possibili letture critiche e a tre ricadute ideologiche: lo storicismo, l’economicismo e l’utopismo.

La concezione marxiana della storia intesa come successione temporale di modi di produzione, che il marxismo ha elaborato nel concetto di materialismo storico, da luogo alla critica di storicismo da intendersi come "riduzione integrale della realtà a storia". Secondo questa concezione la storia viene ad essere concepita come pura successione lineare di modi di produzione e come teatro di rappresentazione del triplice mito di un Soggetto autocosciente, di un’Origine non alienata e di un Fine inteso come approdo necessario di un lungo percorso progressivo.
L’economicismo è invece la conseguenza della scelta operata da Marx di privilegiare il campo di ricerche economiche al fine di dare un fondamento scientifico alle sue teorie di formazione del plusvalore e di sviluppo e crisi del modo di produzione capitalistico. L’aver scelto l’economia politica a oggetto esclusivo, anche se critico, di studio ha comportato una serie di conseguenze:
ha circoscritto all’economia il campo di indagine marxiano e delimitato la cornice entro cui il suo pensiero critico si è mosso,

ha indotto il marxismo a sopravvalutare l’aspetto quantitativo della teoria del valore (trasformazione del valore in prezzi) a scapito di quello qualitativo (legame filosofico del concetto di valore con quelli di alienazione e feticismo delle merci),

ha imposto una "economicizzazione del conflitto" di classe facendo convergere ogni rivendicazione antagonista sul terreno esclusivamente economico di equità distributiva.

Il terzo elemento critico, l’utopismo, si ricava dalla concezione secondo la quale il comunismo sarebbe stato il risultato necessario della dinamica dello sviluppo capitalistico. Una concezione, sottolinea Preve, deterministica e teleologica, che vede nell’automovimento della produzione capitalistica il presupposto materiale della realizzazione di una struttura sociale comunista, il cui fine è il soddisfacimento pieno dei bisogni umani.

Ciò che hanno in comune le tre concezioni di Marx è l’esclusione della filosofia, da intendersi qui come strumento autonomo di creazione di percorsi veritativi, dal proprio campo di indagine con la conseguente riduzione della stessa ad epistemologia e ideologia. Non che Marx non si riferisse ad una propria filosofia la cui genesi è nota (Epicuro, Hegel, Spinoza e Feuerbach), ma ciò che Marx negava alla filosofia era di possedere un proprio spazio conoscitivo specifico. Negazione che il marxismo successivo, da Engels ad Althusser, ha approfondito nel tentativo di preservare la purezza della teoria scientifica. Ma, ed è qui il punto centrale delle tesi di Preve, con questa scelta il marxismo si è negato la possibilità di sottoporre le proprie teorie, e le relative ricadute ideologiche, ad uno spazio critico di autoriflessione.

Di fronte ai grandi modelli conoscitivi di modo di produzione e teoria del plusvalore, che Marx ha potuto sviluppare proprio grazie alla scelta di privilegiare lo studio dell’economia politica classica, il prezzo da pagare è stato l’abbandono di quel piano di indagine critica rappresentato dalla filosofia, da Preve intesa, in senso socratico, come continua ricerca della verità attraverso il dialogo. La ricaduta negativa è stata una conseguenza necessaria, fisiologica e non patologica, delle scelte operate da Marx. Ciò che è risultato fatale è stato l’aver pervicacemente insistito, da parte di quasi tutti i marxisti, solo sugli aspetti "scientifici" dell’eredità di Marx, scelta che ha condotto il marxismo, sia nella sua variante teorica che in quella politica, ad incagliarsi, lentamente ma inesorabilmente, nelle secche del nichilismo.

Visto così si potrebbe credere che questo libro sia solo una critica distruttiva della tradizione marxista. In realtà non è così. L’eredità e gli errori del passato vengono, infatti, vagliati criticamente al solo scopo di gettare le basi, nel presente, di una nuova prospettiva critica credibile e praticabile. E’ il concetto di natura umana a traghettarci dalla pars destruens a quella costruens del libro.

Convinzione di Preve è che la natura umana non è concetto metafisico ma un dato concreto, esperibile sia nella realtà soggettiva che nella storia del genere umano. Essa è un elemento costitutivo, ontologico, dell’essere umano il cui carattere plastico ed aperto è osservabile empiricamente. Se così non fosse, dice Preve, le tecniche di manipolazione avrebbero già sottomesso l’intero genere umano. "Se l’uomo non fosse un ente naturale generico, in cui la creatività e la reazione all’oppressione sono elementi non solo storici ma radicati nella più intima struttura antropologica, non scommetterei neppure 10 euro sulle possibilità dei movimenti di resistenza".

Chi critica il concetto di natura umana prendendo a spunto la 6° Tesi di Feuerbach, dove Marx riduce "l’essenza umana" a "l’insieme dei rapporti sociali", confonde l’essenza umana in quanto specificazione storica, manifestazione concreta, nelle forme alienate della società capitalista criticate da Marx, di quella genericità costitutiva, invece, della natura umana. Questo è certamente il punto centrale del libro ed è anche l’unico momento in cui Preve cita direttamente Marx a sostegno di una sua tesi. Si tratta dei Lineamenti fondamentali della critica dell’economia politica o Grundrisse — La Nuova Italia -, vol.1, p.98-99:

«Il carattere sociale dell’attività, così come la forma sociale del prodotto e la partecipazione dell’individuo alla produzione, si presentano qui come qualcosa di estraneo e di oggettivo di fronte agli individui; non come loro relazione reciproca, ma come loro subordinazione a rapporti che esistono indipendentemente da loro e nascono dall’urto degli individui reciprocamente indifferenti. Lo scambio generale delle attività e dei prodotti, che è diventato condizione di vita per ogni singolo individuo, il nesso che unisce l’uno all’altro, si presenta ad essi stessi estraneo, indipendente, come una cosa. Nel valore di scambio la relazione sociale tra le persone si trasforma in rapporto sociale tra le cose; la capacità personale, in una capacità delle cose. Quanto minore è la forza sociale del mezzo di scambio, quanto più essa è ancora legata alla natura del prodotto immediato del lavoro e ai bisogni immediati di coloro che scambiano, tanto maggiore deve essere la forza della società che lega insieme gli individui, il rapporto patriarcale, la comunità antica, il feudalesimo e la corporazione. Ciascun individuo possiede il potere sociale sotto la forma di una cosa. Strappate alla cosa questo potere sociale e dovete darlo alle persone sulle persone. I rapporti di dipendenza personale (all’inizio su una base del tutto naturale) sono le prime forme sociali, nelle quali la produttività umana si sviluppa soltanto in un ambito ristretto e in punti isolati. L’indipendenza personale fondata sulla dipendenza materiale è la seconda forma importante in cui giunge a costituirsi un sistema di ricambio sociale generale, un sistema di relazioni universali, di bisogni universali e di universali capacità. La libera individualità, fondata sullo sviluppo universale degli individui e sulla subordinazione della loro produttività collettiva, sociale, quale loro patrimonio sociale, costituisce il terzo stadio. Il secondo crea le condizioni del terzo. Sia le condizioni patriarcali che quelle antiche (ed anche feudali) crollano perciò con lo sviluppo del commercio, del lusso, del denaro, del valore di scambio, nella stessa misura in cui di pari passo con essi si innalza la società moderna.»

La citazione [...] dimostra molto chiaramente come la conoscenza filosofica, terreno esplicitamente abbandonato da Marx, sia implicitamente rimasto il background delle sue elaborazioni concettuali. In queste due paginette dei Grundrisse, infatti, Marx fa tre cose: 1) riprende il concetto di alienazione, già elaborato negli scritti giovanili, per precisarlo ulteriormente nel termine di reificazione (Verdinglichung) inteso come percezione dei rapporti sociali come cosa (Ding) 2) precisa la nozione di modo di produzione come "sistema di ricambio sociale generale" articolato in tre elementi interconnessi, le forze produttive sociali, i rapporti sociali di produzione e le ideologie di legittimazione 3) definisce la società comunista come società fondata sullo sviluppo universale di libere individualità.

Questo è indubbiamente un linguaggio filosofico. Universalità, libertà, individualità e reificazione non sono certo concetti indagabili con le categorie dell’economia politica. Ma questa citazione dimostra, se ce ne fosse stato ancora bisogno, che il pensiero di Marx non è organicista-totalitario ma è pensiero della libertà e quindi di modelli sociali universalizzabili, fondati su una visione della natura umana colta in tutta la sua ricchezza relazionale. E dimostra, in ultimo, che è sempre utile tornare ad indagare il pensiero di Marx in forza anche di quella sorta di eccedenza in esso contenuta, eccedenza che esorbita le sue stesse tesi programmatiche e che è in grado di aprire nuovi percorsi alla conoscenza.

A conclusione del suo lavoro Preve auspica, nei confronti del marxismo, quello che definisce un "riorientamento gestaltico", un atteggiamento cioè che permetterebbe di scorgere oggi ciò che fino a ieri neanche si percepiva. Il riorientamento gestaltico del marxismo passa attraverso l’abbandono delle sintesi ideologiche di storicismo, economicismo e utopismo. Conseguenza di questo abbandono sarebbe la scomparsa di tanti falsi problemi tra cui quello di identificazione del marxismo con la sinistra o quello della falsa dicotomia destra/sinistra da Preve intesa come "protesi elettoralistica artificiale di tipo bipolare maggioritario". Oggi la distinzione radicale è quindi tra chi giustifica la guerra imperiale e chi no. A corredo del libro c’è anche una ricca ed esauriente nota bibliografica, sorta di quinto capitolo, che impreziosisce ulteriormente il già interessante lavoro di Preve.»

’ottima recensione di Paolo Sergola evidenzia i due punti nodali del saggio di Preve: il primo sta nel proporre la necessità di una teoria della natura umana alla base del pensiero di Marx; l’altro, nel sostenere che tale teoria, riguardando l’ontologia dell’essere umano, il suo essere in sé e per sé, e gli attributi che Marx stesso attribuisce ad essa (universalità, libertà, individualità) non possa prescindere da un’antropologia filosofica.

Se si riconosce la fondatezza di questi due punti, la coerenza del saggio di Preve è assoluta e la rivendicazione del primato della filosofia sulla scienza legittima.

Il problema, a mio avviso, è che si può ritenere assolutamente vero il primo punto, ma non il secondo.

Sono del tutto d’accordo con Preve riguardo al fatto che senza una teoria della natura umana, il pensiero di Marx rimane sospeso in aria perché lo storicismo non sopperisce questa carenza. La storia, infatti, ci pone di fronte alle molteplici manifestazioni della natura umana, che dipendono dall’interazione con un ambiente modificato dall’uomo.

Marx sostiene che è proprio la capacità dell’uomo di agire sull’ambiente attivamente per adattarlo ai suoi bisogni, capacità che raggiunge il massimo grado con lo sviluppo capitalistico, l’espressione più propria e specifica della natura umana, che viene poi modellata a sua volta dalle trasformazioni indotte dall’uomo.

Questo circolo virtuoso e vizioso al tempo stesso, nella misura in cui promuove l’alienazione religiosa prima, politica poi, capitalistica infine, pone da parte, secondo Marx, il problema della natura umana in sé e per sé perché essa, in ultima analisi, è conoscibile solo attraverso le sue manifestazioni storiche.

Se questo fosse vero, l’analisi che Preve fa del brano dei Grundrisse sarebbe perfetta: cacciata dalla porta, la filosofia rientrerebbe dalla finestra. L’evoluzione dell’essere umano dalla dipendenza originaria, che implica una limitazione della libertà individuale e un grado di sviluppo locale, all’indipendenza promossa dallo sviluppo capitalistico, sulla base formale del riconoscimento dei diritti umani, e quindi della sua universalità, libertà e individualità, non potrebbe essere interpretata se non in termini filosofici, facendo riferimento cioè al fatto che la storia avrebbe fatto affiorare l’ontologia dell’essere umano.

Le cose però non stanno così.

L’atto di nascita dell’uomo non è la storia in senso proprio, ma la storia naturale che, ad un certo punto, ha dotato un ominide di un cervello del tutto particolare. L’adesione entusiastica di Marx all’evoluzionismo darwiniano attesta il fatto che egli era del tutto consapevole di questo evento straordinario, che non poteva però interpretare se non in termini storici.

Oggi il problema della natura umana, che si può fare coincidere con la predisposizione genetica del cervello umano a produrre cultura, si può affrontare su base scientifica, utilizzando i dati dell’evoluzionismo, della genetica e della neurobiologia.

La storia propriamente intesa, vale a dire la storia documentaria, che si avvia sulla base della divisione del lavoro e della nascita delle classi, è l’insieme dei tentativi e degli errori che gli esseri umani hanno commesso nell’amministrare le potenzialità del loro cervello interagendo, producendo gli strumenti di produzione e i mezzi di sopravvivenza, distribuendo le risorse prodotte e costruendo mondi simbolici atti a sopperire alla loro finitezza e alla loro inquietudine esistenziale.

Il fatto che i tentativi e gli errori abbiano promosso l’affiorare della rivendicazione della libertà individuale come diritto naturale e, nel contempo, con lo sviluppo mondiale del Capitalismo, abbiano posto in luce l’universalità dell’uomo è estremamente significativo di bisogni intrinseci alla struttura cerebrale, geneticamente determinati, che si sono fenotipizzati lentamente: il bisogno di appartenenza prima, quello di individuazione poi.

L’antropologia scientifica, destinata ulteriormente a progredire, fornisce al pensiero di Marx i presupposti che, all’epoca, difettavano.

Dato che i bisogni intrinseci sono riconducibili alla programmazione genetica del cervello, è evidente che il loro dispiegamento nel corso della storia postula anche il ricorso a strumenti psicologici e psicoanalitici per capire in quale misura la coscienza umana può sviluppare forme di alienazione di ogni genere, vale a dire può porsi come coscienza falsa o mistificata.
La necessità di integrare il pensiero di Marx con una riformulazione del rapporto tra coscienza e inconscio (individuale e sociale) può avvenire, però, solo su di una base scientifica, vale a dire nell’ottica di una disciplina chesi va delinenado, la neuropsicoanalisi.

La conoscenza della natura umana pertiene alla genetica, alla neurobiologia e alla neuropsicanalisi. Il rapporto tra natura umana e storia si definisce in termini di fenotipizzazione delle potenzialità genetiche, che sono ridondanti. L’evoluzione storica va interpretata come risposta a bisogni umani, che possono dispiegarsi, nell’interazione con l’ambiente, in forma autentica o in forma alienata.

L’analisi critica che Marx fa del sistema capitalistico è incentrata sul fatto che lo sviluppo universale dei rapporti sociali, prodotto dalla mondializzazione del mercato, trasforma quei rapporti in rapporti tra cose, li cela sotto il feticcio del denaro e promuove l’alienazione consumistica dei bisogni.

E’ evidente che, nell’avanzare tale critica, egli ha in mente un modello antropologico alternativo a quello borghese, come pure che tale modello implica una determinata concezione della natura umana.

Il suo problema, però, non è definire quel modello e questa concezione (impresa, peraltro, all’epoca impossibile), ma capire per quale via sarebbe stato possibile contrastare l’alienazione borghese e porre fine all’oppressione dell’uomo sull’uomo.

Il rivolgere il suo interesse all’economia politica è dipeso dall’avere identificato in essa, vale a dire nei rapporti di produzione, la matrice dello sfruttamento, dell’alienazione e, aggiungeremmo oggi, dell’economicismo psicologico.

Riaffermare il primato conoscitivo della filosofia è puro e semplice intellettualismo. Significa non capire che il Marx filosofo, teorico dell’alienazione, è di fatto antesignano di una panantropologia che, integrata dall’apporto di tutte le scienze umane e sociali, può restituire all’uomo consapevolezza del suo essere, dei suoi bisogni autentici e del suo farsi e disfarsi nel corso della storia.

Se questo è vero, però, contestare il rifiuto di Marx della filosofia come “pratica veritativa” è francamente ridicolo. Marx rifiuta senz’altro la filosofia per una suggestione “scientista” comprensibile in rapporto allo straordinario sviluppo della scienza e della tecnologia alla sua epoca, ma la rifiuta anche perché sa che essa nulla ha da dire sull’origine naturale dell’uomo e, dunque, sulla sua natura.

Ancora oggi i filosofi sono fermi al conosci te stesso socratico e al come si debba vivere e ripropongono la comunicazione dialogica come strumento di approssimazione alla verità.

Essi non si rendono conto che la democrazia dialogica, nella quale essi vedono la massima espressione della tendenza filosofica della natura, è lo stadio finale, e per ora utopistico, di un lungo tragitto di liberazione dell’umanità dall’alienazione religiosa, politica ed economica. Tale tragitto, prematuramente segnato da Marx, non potrà realizzarsi senza il ricorso al suo pensiero, ma ancora meno ad una panantropologia che restituisca all’uomo la consapevolezza del suo essere naturale, della sua natura umana, dei suoi bisogni autentici, della struttura del suo cervello, dell’organizzazione complessa della sua mente e, infine, della sua dimensione esistenziale.
Solo via via che tale tragitto giungerà a compimento, l’antropologia scientifica e quella filosofica potranno incontrarsi ed arricchirsi vicendevolmente.